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Immagine del redattoreDalla carta allo schermo

RECENSIONE: Il ragazzo e l'airone (Hayao Miyazaki)




Regista: Hayao Miyazaki

Anno: 2024

Durata: 125 minuti

Genere: Animazione, Drammatico



 

Trama

Crescita psicologica di un adolescente attraverso le interazioni con i suoi amici e lo zio.

Tokyo, 1943. Durante la guerra nel Pacifico tra giapponesi e Alleati, un ragazzino di dodici anni, Mahito, perde sua madre Hisako, rimasta vittima di un incendio divampato all’interno di un ospedale.

Dopo qualche tempo, suo padre Shoichi si risposerà con Natsuko, zia di Mahito. L’uomo deciderà per il trasferimento in un’altra città ma, con il passare del tempo, in Mahito accresce la nostalgia di sua madre, e per questo sogna di poterla rivedere. Un giorno, mentre si trova tra le rovine di una torre abbandonata, Mahito incontra un airone grigio, che gli dona le sue piume per costruire delle frecce. In seguito, Mahito ritrova anche un libro che sua madre avrebbe voluto regalargli, il quale include delle annotazioni: attraverso il volume comincerà a interrogarsi sul significato della vita e della morte, e di questo ne discuterà con suo zio.

Ma sarà proprio l’airone a mostrargli la strada per un mondo fantastico, lì dove la morte finisce e la vita trova un nuovo inizio…


Recensione

Sono passati dieci anni da quello che sembrava il suo film testamento, quel Si alza il vento che era celebrazione della sua poetica, del suo sguardo, del suo amore per la Settima Arte. Nel frattempo il cinema d’animazione giapponese è andato avanti, anche con risultati più che discreti, ma ora più che mai il mondo ha bisogno di nuovo del talento di Hayao Miyazaki. Ed ecco che, all'inizio del nuovo anno, arriva Il ragazzo e l’airone, il suo ultimo film e il suo modo per salutarci.


Mahito, un ragazzino di 12 anni, fatica ad ambientarsi in una nuova città dopo la morte della madre Hisako a causa di un incendio nell’ospedale in cui lavorava e dopo che suo padre Shoichi si è risposato con la sorella minore di Hisako, Natsuko. Tuttavia, quando un airone parlante lo informa che sua madre è ancora viva, Mahito entra in un mondo fantastico per ricercarla, senza sapere che le sorti del mondo intero dipenderanno dalle sue azioni.


Per il cinema di Miyazaki e, in generale, per la cultura orientale tutta il mondo si fonda sull’equilibrio di forze opposte: luce e oscurità, bene e male, giusto e sbagliato, acqua e fuoco. Queste forze però non si oppongono in maniera strenua ma si fondono parzialmente, perché senza questa convivenza, l’equilibrio delle cose non potrebbe mai sussistere. C’è una scena molto bella nel finale del cartone che racconta perfettamente questo equilibrio, qui rappresentato come una serie di pietre di forme completamente diverse impilate le une sulle altre in uno slancio geometrico che sfida e sconfessa tutte le leggi della fisica.


Superati da poco gli ottant’anni, il maestro giapponese si guarda indietro per cercare di immaginare un futuro che forse potrà soltanto intravedere, riflettendo anche sulla propria mortalità, sullo stato dell’arte dell’animazione, sul lascito culturale e artistico che il figlio sarà costretto a portare avanti. L’unica possibile risposta a queste preoccupazioni, ci sembra che il regista ci informa, sta nell’equilibrio del mondo. Un mondo molto complesso, ma anche semplice perché decifrabile attraverso le coordinate che la nostra infanzia e la nostra immaginazione ci regalano.


Dentro il suo ultimo lungometraggi, il regista, ci ha messo davvero tutto quello che gli sta a cuore, sia a livello tematico che di argomenti, ma anche tutta una serie di immaginari che lo hanno ispirato nel corso di cinquanta splendidi anni di carriera. C’è il folklore europeo rappresentato dalle sette nonnine che ricordano i sette nani, ma anche quello giapponese con i terribili parrocchetti.


Ci sono dentro i mondi fantastici de La città incantata e de Il castello errante di Howl, la guerra e i riferimenti ai totalitarismi di Porco Rosso, l’amicizia tra uomo e natura di Ponyo sulla scogliera e l’inimicizia di Principessa Mononoke; soprattutto però c’è tanto cinema in ogni singola inquadraturacinema che travalica lo schermo e irrompe in sala con tutta la sua fragorosa potenza.


Alla fine conta solo ricordare. Ed è fondamentale che si ricordi, perché quel “normalmente tutti dimenticano” esplicitato nel finale da un personaggio fondamentale nelladella storia è un grido che Miyazaki lancia verso di noi, verso le generazioni più giovani. È solo un momento, lampante e brevissimo, ma trafigge il cuore perché è il maestro stesso a parlarci, a chiederci di non dimenticare. È l’ultima richiesta di un uomo che per cinquant’anni ha creato ed esplorato mondi incredibili, dato vita a streghe, draghi e animali antropomorfi, raccontato di adulti che si sentivano perduti e di bambini che erano lì per aiutarli a ritrovare la strada, dato un senso al dolore e alla tragedia.


La verità è che il cinema tutto, non solo quello di animazione, perderà un grande narratore, un uomo che sapeva vedere con gli occhi di un bambino, un regista in grado di raccontare il particolare e l’universale, lo yin e lo yang.


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