Voto: 5/5
Autore: Stefano Di Lauro
Editore: Exòrma, 2019
Pagine: 344
Genere: Narrativa italiana, Narrativa moderna e contemporanea
Prezzo: € 16.50
Acquista: Libro
Trama
Fulminea come un salto di balena, da un ripostiglio della memoria proruppe una frase: "Anche un'opera d'arte ispirata dalla disperazione nutre di vita l'animo di un uomo". Nounours, capelli biondini piuttosto sottili, iridi blu oltremare, cute glabra e chiara, un panama calcato sulla testa per proteggersi dal sole, vaga senza meta tra i boulevard di Arles rimuginando su arte e vita, su reale e immaginario, chiedendosi "cosa fare domani". Un incontro fortuito lo porterà al piccolo circo "Au Diable Vauvert" che diventerà il suo porto sicuro, la sua famiglia. Il Diable è un microcosmo di esseri unici, dediti al culto della meraviglia, i cui nomi evocano la magia dell'arte, della "loro" arte itinerante, vissuta sulle strade di Francia fin-de-siècle tra sordide periferie punteggiate di vicoli ambigui e luoghi memorabili. Ognuno di loro si rivelerà a Nounours attraverso il racconto della propria esistenza. Tra le righe aleggia il fantasma di Leopardi e vi si intravede l'ombra di Melville evocata da Marcel Schwob, singolare e solitario spettatore di una delle loro rappresentazioni.
Recensione
Quello che salta subito all’occhio in questo romanzo è la bella e intrigante copertina. Copertina particolare per un romanzo altrettanto particolare e fuori dall’ordinario. Il libro porta il lettore in una un’atmosfera quasi onirica, coinvolgente ma mai invadente, anzi, morbida e cullante. Protagonisti i circensi di una compagnia che il 31 dicembre del 1899 salpano dal porto di Le Havre, in Normandia, alla volta di Buenos Aires.
Inizio col dire che il libro merita molto. Una scrittura unica, ricercata, raffinata e di alto livello caratterizza l’intero libro. Molto particolare poi è la scelta dei personaggi e la loro caratterizzazione.
La scena iniziale riprende l’ultimo giorno del diciannovesimo secolo: è il 31 dicembre del 1899 quando dal porto di Le Havre, in Normandia, salpa, diretto alla volta di Buenos Aires, il piroscafo mercantile Holy Steam. Nella stiva viaggia la compagnia del piccolo circo Au Diable Vauvert, composta dai fratelli Méliès, Orlando, Prosper e Lou, che la compagnia l’hanno proprio fondata. Un gruppo di artisti dai nomi che non possono non incuriosire. Per chiarezza, il Diable porta con sé una scimpanzé, Chouchou, e una lupa, Antoinette. Basta solo elencare questi elementi per renderci conto che la trama racconta di un viaggio che è soprattutto metafora della vita, della ricerca di sé stessi e dell’inconscio.
Il viaggio che si svolge attraverso le pagine del romanzo è soprattutto un moto metaforico, più di ricerca che di scoperta, sospinto dal bisogno di trovare il proprio posto nel mondo dove essere accettati per quello si è.
Il nome del circo, Au Diable Vauvert, deriva da un modo di dire della lingua francese, per indicare luoghi vaghi e lontani, inaccessibili, posti dimenticati, dall’altra parte del mondo, alla fine del mondo o in fondo alla luna. Anche se la compagnia è la prima volta che lascia la Francia, i suoi componenti hanno comunque percorso molti itinerari, mangiato la polvere della strada, calcato lo stesso, ma mai uguale, palcoscenico in tantissimi luoghi, tanto che potremmo definirli dei viandanti dell’anima. Quella del Diable è però una compagnia di viaggiatori solitari, perché, nonostante il loro stare insieme, essi restano pur sempre una compagnia e mai diventano gruppo. I componenti del circo vivono insieme e condividono moltissime cose e situazioni, tuttavia mai sembra abbandonarli un sottile velo di malinconia che pare generarsi dalla mancanza, dalla nostalgia o dall’assenza di qualcosa o qualcuno. L’autore immagina Le Diable come un porto sicuro in cui gli artisti che ne fanno parte possono smettere di nascondere la propria diversità e vivere l’amore come reciproca protezione di solitudini profondamente insormontabili.
Inoltre, le biografie dei protagonisti, dai nomi fortemente onomatopeici, si intrecciano magistralmente con la storia e la vita del circo e, sebbene particolarissime, ognuna nella propria unicità, sono accomunate dall’essere in qualche modo speciale e fuori dal comune e l’aver trovato, solo sotto quel tendone, il proprio posto nel mondo.
A fare da sfondo a tutto ciò la fedeltà cieca di Chouchou e Antoniette e le suggestive immagini degli angoli della Francia di fine secolo, di cui anche in copertina riecheggia il ricordo dei quadri impressionisti, il tutto incorniciato dalla magia dell’arte declinata in tutte le sue forme e le sue espressioni: la musica, la letteratura, la fotografia, la scenografia, l’arte del palcoscenico.
Posso dire che l’autore, con questo romanzo ci fa riscoprire il piacere di ascoltare una storia che ha quasi del magico, in cui gli elementi portati da ognuno dei personaggi si intrecciano a formare una trama preziosa, un tessuto morbido e avvolgente in grado di cullare. Un libro carico libro carico di simbolismi capace di mantenere un solido equilibrio tra i momenti dire più magici e quelli in cui le descrizioni si fanno più realistiche.
Romanzo che consiglio a tutti coloro che cercano una storia particolare, scritta in modo impeccabile e ricercato che si può definire come un balsamo per l’anima.
Alcune note su Stefano Di Lauro
Stefano Di Lauro si definisce un mitonauta. È autore, regista e compositore.
Ha pubblicato Eroine_ nient’altro da dichiarare (2012) e Dittico dell’amore osceno (2011) per Shamba Edizioni; La mosca nel bicchiere – La poetica di Carmelo Bene (Icaro, 2007); ÒperÉ (Besa, 2006).
Come regista teatrale ha lavorato in Italia e in molti paesi esteri. Autore di testi teatrali, adattamenti di opere straniere e riscritture di classici, ha anche realizzato opere di video-arte e documentari, e scritto musiche di scena affiancando numerosi progetti musicali e discografici.
Da bambino stravedeva per l’arte primitiva e gli innesti botanici.
Memorie di un delfino spiaggiato è il titolo orfano del libro che non scriverà mai.
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